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Politica, Economia e Irrazionalità, by B.M.

 

 

 

 

In un recente articolo comparso nell’edizione on line, in inglese, dello Spiegel, Joseph Stiglitz, con l’autorevolezza di un Nobel, ha sostenuto il pericolo che corrono le società del pianeta, quando la politica non è più in grado di regolare l’economia e, soprattutto, non ha più la forza di frenarne la deriva finanziaria. Il danno, già in atto, ed il pericolo, futuro, peraltro, sono segnalati da tempo da molte persone di buon senso, economisti e non e, ancora di recente, da Claus Offe, allievo di Habermas, sulle pagine de “Il Mulino”.
La questione, letta con gli occhiali del non economista, ha una sua spiegazione perfettamente razionale: l’intestardirsi su di un insopprimibile primato dell’economia è, paradossalmente, assolutamente irrazionale. E dire che l’economia vorrebbe accreditare il suo primato proprio in virtù della oggettiva razionalità dei suoi esiti scientifici.
Ricordo alcuni principi di fondo, in un’epoca in cui il ragionare a partire dai “principi” appare un vuoto esercizio accademico, mentre è ritenuto assai più utile fronteggiare la realtà con la concretezza del “calcolo” funzionale.
Le categorie, teoriche e pratiche, con le quali l’uomo ha costruito la sua vita sociale sono essenzialmente tre: la politica, il diritto e l’economia. Politica e diritto sono categorie “architettoniche”, destinate a costruire l’edificio sociale in modo complementare: la politica a progettarlo ed edificarlo nelle strutture sociali ed istituzionali, il diritto a conservarlo, dettando regole per il comportamento dei consociati, sia tra loro che nei confronti delle istituzioni. Tale complementarietà ha raggiunto il suo apice con la teoria dello Stato di diritto, prima, con il costituzionalismo ottocentesco poi, e con le democrazie parlamentari, nel ‘900.
In questo quadro, politica e diritto possono essere funzionalmente denominate “scienze dei fini”, poiché il loro obiettivo è fondare e governare un ambiente sociale. Diversamente, l’economia è stata pensata come “scienza dei mezzi”, nel senso di strumento e metodo per reperire le risorse da destinare alla costruzione e gestione del progetto sociale. Di conseguenza il suo operare, nella storia del nostro mondo culturale antico e moderno, si è sempre svolto sotto la guida normativa della coppia politica – diritto.
Questo non vuol dire affatto che l’economia sia destinata a soddisfare solo finalità “pubbliche”: sarebbe una stupidaggine, non solo teorica ma anche pratica, perché negherebbe l’apporto che ogni cittadino, singolo o associato, può e deve fornire, in virtù del proprio profitto e benessere, al buon funzionamento della società. Vuol dire una cosa ben diversa: che l’economia, in quanto per sua natura “mezzo” e non “fine”, non può trasformarsi in “fine” in sé, pena non solo l’omicidio sociale, ma il suo stesso suicidio sui tempi medio-lunghi. L’economia, infatti, si alimenta sia del benessere sociale sia della progettualità politica e delle regole che garantiscono il corretto comportamento dei consociati.
Basti ricordare come il liberalismo economico del laisser faire sia nato e prosperato sotto la indiscutibile forza politica e giuridica dello Stato, “assoluto” prima e costituzionale poi.
La causa della sua attuale vocazione egemonica è duplice: l’evaporazione della sovranità statuale legata al territorio, che era stato il cardine del pensiero politico moderno, e l’affermazione di un pragmatismo negoziale in chiave anti-ideologica, ma che presto si è trasformato in “affarismo”. La conseguenza è quell’inversione di ruoli che si è detto, per cui politica e diritto vengono considerati semplici “mezzi” da manipolare in modo funzionale alle finalità dettate dall’economia.
A questa conseguenza “teorica” se ne è aggiunta un’altra assai più “pratica”, favorita da un contesto storico segnato da una vera e propria transizione epocale. La forza dei potentati economico-finanziari vi è sempre stata nella storia; basti ricordare i prestiti che la finanza ebraica faceva ai sovrani europei per le loro guerre. Ma oggi, in un ambiente privo di un pensiero politico adeguato alla criticità dei tempi e divenuto insensibile all’ideale giuridico, tale forza è divenuta dominanza “assoluta”. “Assoluta”, come “assoluto”  è stato inizialmente concepito il sovrano moderno, “slegato” cioè da ogni legge ed il cui fine era il governo dello Stato come personale patrimonio.
Questa è la situazione attuale: ci troviamo di fronte ad una nuova forma di “assolutismo”, che tuttavia non beneficia dei “lumi” della ragione, quale era quello settecentesco, ma del quale condivide la lontananza, materiale e progettuale, dalla base sociale.
Certo, la raffigurazione pubblica cambia secondo i tempi. Oggi, in epoca di democrazie parlamentari e globalizzazione, l’assolutismo non veste più mantello e corona, ma si presenta sotto forma di lobbies finanziarie così potenti da dettare i destini del pianeta, gettando nell’impotenza di fatto qualsiasi istituzione politica, con il mezzo del ricatto speculativo.
Non resta che un interrogativo: questo nostro mondo ha la forza, culturale e materiale, per far fronte ad una situazione, la cui gravità non è emersa ancora, forse, fino in fondo? Non lo so; so però che stiamo servendo un padrone storicamente miope: la Francia dell’89 e la Russia del ‘17 dovrebbero insegnare che quando la ricchezza si chiude dentro un castello dorato, è un potere che si autodistrugge.

                                                                                              B.M.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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