Boaz Content Banner Jachin

 

GOD, l’Associazione “Eleanor Roosevelt”, Francesco Salistrari e il Moralista

 

 

 

 

A consuntivo di quanto accennato anche in

DRP commenta “Parte da Gioia Tauro l‘associazione culturale ‘Eleanor Roosevelt’”, articolo del 22 luglio 2013 by Caterina Sorbara per APPRODO NEWS (clicca per leggere)

e anticipato da

14 luglio 2013: GOD presenta i primi lavori preparatori per la nascita dell'Associazione "Eleanor Roosevelt" (clicca per leggere)

L'Associazione Eleanor Roosevelt per il Socialismo Liberal e Democrazia Radical Popolare (clicca per leggere),

abbiamo letto con grande piacere e apprezzamento

“Associazione ‘Eleanor Roosevelt’: riflessioni ad alta voce”, articolo del 21 luglio 2013 by Francesco Salistrari per MEMORANDUM DI UNO SMEMORATO (clicca per leggere),

rilanciato anche in

“Associazione ‘Eleanor Roosevelt’: riflessioni ad alta voce”, articolo del 21 luglio by Francesco Salistrari riportato su IL MORALISTA (clicca per leggere).

In tale articolo sapiente e ben costruito di Francesco Salistrari spicca non soltanto la passione civile di quello che sarà certamente un graditissimo associato della costituenda “Eleanor Roosevelt”, ma anche una capacità di sintesi non comune delle questioni che sono attualmente prioritarie nello scenario geo-politico italiano, europeo, occidentale e globale.
Inoltre, anche il fatto che Salistrari (ed altri di comune sentire) possano apportare all’Associazione un ventaglio di problematiche diverse e magari apparentemente contrastanti rispetto alle suggestioni di altri eventuali soci fondatori non deve essere percepito come una minaccia alla coerenza interna della “Eleanor Roosevelt”, quanto come un ulteriore e fecondo arricchimento per giungere ad una sintesi superiore e più raffinata di teorie e prassi utili all’azione associativa e alla cittadinanza in genere.
Per Noi che contingentemente scriviamo questo pezzo, indubbiamente, suonano come problematici (e tuttavia stimolanti) soprattutto i seguenti passaggi del pezzo di Salistrari:

“La seconda cosa che vorrei analizzare, rispetto ai compiti che, secondo la mia modestissima opinione, dovrebbe assumere l’Associazione “Roosevelt” è quella di proporre un’analisi critica di alcuni punti problematici del sistema capitalistico in quanto tale, punti che determinano non solo le dinamiche della crisi economica in generale, ma che stanno essi stessi alla base delle strategie delle élites dominanti.
In particolare, ritengo necessaria lo sviluppo di un’analisi profonda delle contraddizioni intrinseche al sistema capitalistico moderno, soprattutto per quanto riguarda i modi, i tempi e i fini della produzione, l’allocazione di beni e risorse, la distribuzione della ricchezza. Un’analisi che in altre parole faccia i conti con quello che oggi vogliono significare le parole “finanza”, “crescita”, “mercato”. Questo perché sono convinto, probabilmente nella mia ingenuità, che intorno alla ridefinizione di questi concetti si gioca la partita più ampia per il miglioramento delle condizioni di vita generali, ma anche la partita decisiva del compito e del ruolo che la democrazia deve e può svolgere. 
Se si vuole realmente incidere ed in profondità nei meccanismi economici, sociali e politici che il tempo in cui viviamo ci propone, non si può assolutamente prescindere dalla comprensione di alcuni fenomeni latenti e palesi che operano nel mondo moderno e che stanno alla base delle dinamiche distruttive a cui oggi assistiamo. Sarebbe decisamente inefficace pensare di poter invertire tale rotta, solo mettendo in discussione le forme e i modelli istituzionali oggi esistenti e imposti, solo mettendo in discussione i soggetti politici (occulti e palesi) che detengono le fila del comando, solo proponendo un cambio di guardia e di personale, senza agganciare a questo una messa in discussione più profonda di alcuni meccanismi del sistema capitalistico in quanto tale.”

Probabilmente, il miglior modo di affrontare lo stimolo sul tema del “capitalismo in quanto tale” sarà fare in modo che l’Associazione “Eleanor Roosevelt” organizzi più di un pubblico convegno proprio sul tema del capitalismo nel passaggio dal XX al XXI secolo, agevolando un confronto critico interno che coinvolga soci latori di visioni divergenti sul tema, ma anche aperto all’apporto di economisti, politologi e intellettuali esterni.

Con un approccio moderato e sobrio, Salistrari aggiunge che:

“Questo non significa che l’Associazione “Eleanor Roosevelt” debba porsi come un soggetto anticapitalistico, questo non significa mettere in discussione la difesa della “libera iniziativa privata” a vantaggio di uno Stato invadente e pervasivo. Non si tratta di discutere quale modello sia auspicabile: se un modello ad “economia di mercato” o un modello ad “economia pianificata”. Non si discute di scegliere tra “socialismo” e “capitalismo”. Si tratta di capire e di comprendere che i fenomeni che stanno alla base delle dinamiche moderne, pongono dei quesiti ineliminabili intorno ad alcuni dei principi che hanno informato fino a questo momento lo sviluppo del modello economico nel quale viviamo. Principi, ideologie, strumenti, modi, modalità e prassi, che segnalano come sia venuto il tempo di cominciare a porsi delle serie domande sulla società che si vuole costruire.”

Concordiamo anzitutto sul fatto che l’Associazione “Eleanor Roosevelt” non debba e non  possa porsi come un soggetto anticapitalistico. Né essa potrebbe mai mettere in discussione il principio della “libera iniziativa privata” e del libero accesso dei privati alla proprietà dei mezzi di produzione, favorendo magari l’idea di uno Stato invadente e pervasivo.
D’altra parte, va senza dubbio raccolta la sfida a porsi delle domande serie sul senso ultimo della società umana che si vuole costruire nei prossimi decenni e va riconosciuto tanto il fatto che non esista un modello unico di capitalismo e di libera economia di mercato, quanto un’evidenza altrettanto cogente:  ancora non è stato mai edificato un sistema di sviluppo economico armonioso a 360°, in grado di conciliare la libertà con l’uguaglianza concreta delle possibilità per tutti e per ciascuno e con una giustizia sociale solida e sostanziale.
Eppure, possiamo anticipare a Salistrari una nostra impressione, che in seguito saremo lieti di declinare e argomentare meglio in qualche forma di pubblico dibattito.
La nostra impressione è che il vero problema non sia il “capitalismo”, anche nella sua versione più predatrice e cinica, cioè quella del turbocapitalismo finanziario.
Gli “squali” del turbocapitalismo finanziario possono persino avere un ruolo sistemico oggettivamente sano ed equilibrante… analogo a quello che i pescecani letteralmente intesi hanno per l’ecosistema dei mari e degli oceani da essi frequentati…
Il problema è il venir meno dello Stato come rappresentante  attivo, dinamico, indipendente, autorevole e incisivo del Potere del Popolo Sovrano.
Lo Stato non deve soffocare la libera economia di mercato con strategie totalitarie di pianificazione economica, certo.
Ma chi ha detto che le Istituzioni statuali (anche sovra-nazionali e però sempre legittimate democraticamente dal basso) non possano e non debbano intervenire nel libero gioco economico dei privati per dare impulsi benefici là dove occorra, garantendo sempre e comunque lavoro, profitto e piena occupazione mediante strategici e periodici ammodernamenti di infrastrutture e attraverso la realizzazione costante di piccole, medie e grandi opere che siano peraltro utili alla convivenza collettiva e allo stesso sviluppo economico?
Chi ha detto che le Istituzioni statali non possano e non debbano intervenire con proprie strutture creditizie in grado di sostenere adeguatamente imprese, professionisti, lavoratori e famiglie, là dove il mondo bancario privato –legittimamente – abbia contingentemente deciso (scegliendo bene o male) di investire la maggior parte delle proprie risorse in avventure speculative di tipo finanziario?
Il problema non sono i “capitalisti”, alcuni dei quali potranno liberamente andarsi a schiantare con le proprie azzardate speculazioni o i propri investimenti spericolati (senza però pretendere, al pari di certe banche, di essere “salvati” con soldi pubblici dopo essersi preoccupati solo dei propri privatissimi interessi); il problema è uno Stato che non sia “minimo” e semi-inerte come lo desideravano L. Von Mises, F. Von Hayek e R. Nozick, ma piuttosto sanamente robusto, selettivamente attivo e sempre vigile senza essere invasivo, come auspicato da J. M. Keynes e da J. Rawls e come messo in pratica parzialmente da F. D. Roosevelt.
Ma di questo parleremo volentieri in seguito, come anche del fatto che occorra potenziare ed estendere, in un nuovo scenario di libera economia di mercato per il XXI secolo, ogni forma di collaborazione imprenditoriale di tipo cooperativo e popolare, utilissimo contraltare “democratico, pluralistico ed ugualitario” a forme di governance aziendale verticistiche e ferreamente gerarchizzate.
Quando poi Salistrari scrive:

“Nell’intervento di ieri del Dott. Magaldi, ad esempio, parlando di “globalizzazione”, l’eminente studioso ha posto un problema molto serio. Criticando la globalizzazione economica così come è stata concretamente realizzata, non ha messo in discussione il principio della “libera circolazione di merci e capitali”, ma il fatto che ad essa non sia stata accompagnata una applicazione generalizzata dei “diritti sindacali”. E’ un argomento che può sembrare (ed in parte lo è) molto convincente, ma nasconde una debolezza di fondo che investe la natura stessa del sistema capitalistico moderno. E questa debolezza è rappresentata essenzialmente dal fatto che se le aziende multinazionali hanno voluto (e imposto) un certo tipo di globalizzazione, lo hanno fatto esclusivamente perché il saggio di profitto, in presenza di tutele del lavoro particolarmente avanzate, non è sufficiente a sostenere la crescita economica. Ed è per questo motivo che si sono cercate soluzioni alternative a quella che è una tendenza generale sistemica. D’altra parte anche la “finanziarizzazione dell’economia” risponde precipuamente a questo scopo e rappresenta, a partire dal fatidico momento dell’abbandono degli accordi di Bretton-Woods, quel tentativo peculiare di sostenere la crescita dei profitti, e dunque la crescita economica generale, con metodi diversi.”,

 

bisogna interrogarsi seriamente sul concetto stesso di “crescita economica”.
Non c’è bisogno di mettere in discussione il “sistema capitalistico in quanto tale” per immaginare prima e organizzare poi una via più equa, democratica ed armoniosa alla globalizzazione, allo sviluppo socio-economico dei paesi del Terzo e Quarto Mondo, alla possibilità stessa di incrementare il “saggio di profitto”.
Basterebbe che le grandi Istituzioni economico-finanziarie internazionali come Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, etc., in luogo di operare al servizio di grandi gruppi finanziari e industriali sovra-nazionali e oligarchici di natura privata, per imporre un po’ ovunque i cascami del cosiddetto Washington Consensus (rigide discipline di bilancio statale con contrazione significativa della spesa pubblica, svendita scandalosa di beni statali e privatizzazione selvaggia dei servizi di pubblica utilità in favore di amici e di amici degli amici e in pregiudizio dell’interesse collettivo delle cittadinanze locali, deregulation spesso scriteriata in contesti sociali non equiparabili a quelli di capitalismo avanzato, colonizzazione predatoria da parte di capitali stranieri che diventano padroni de facto non solo delle strutture produttive locali, ma anche del potere politico-mediatico di indirizzo generale, etc.), decidessero di svolgere un altro tipo di funzione.
Quale?
Quella di aiutare i paesi in via di sviluppo a realizzare una traiettoria sapiente e graduale di incremento infrastrutturale, industriale e commerciale compatibile con il contesto ambientale e socio-culturale di partenza e in grado non già di aumentare le disuguaglianze economiche tra pochi ricchissimi (al servizio subalterno di capitali esteri sovra-nazionali) e una pletora di miserabili sfruttati – tenuti pervicacemente ai margini dei processi produttivi – quanto di implementare una partecipazione corale ad una imprenditoria di massa e ad un capitalismo ad azionariato diffuso (locale) che lasci nelle mani delle popolazioni autoctone una discreta fetta dei profitti derivanti dallo sviluppo economico complessivo di un dato territorio regionale o nazionale.
Tutto ciò, in un contesto in cui vi siano tutele del lavoro adeguatamente avanzate, in grado di generare salari decorosi, a loro volta funzionali ad una capacità di consumo soddisfacente anche sui mercati interni.
Ecco, così operando e agevolando quindi la capacità dei paesi in via di sviluppo non soltanto di produrre e vendere (esportando all’estero o con riferimento al mercato interno) ma anche di acquisire e consumare (importando dall’estero o presso il mercato interno) beni e servizi, ciascuna delle nazioni coinvolte in una simile globalizzazione virtuosa potrà concorrere ad un incremento globalizzato anche del cosiddetto “saggio di profitto” (per usare una terminologia “marxiana” cara a Francesco Salistrari).
Naturalmente, il “saggio di profitto” aumenterà in questo caso non mediante la belluina, iniqua e controproducente (sul medio e lungo periodo) contrazione del costo del lavoro e tramite il conseguente sfruttamento di masse di diseredati, bensì attraverso un aumento costante e vorticoso degli scambi commerciali tra paesi sempre più simili non soltanto per strutture bancarie e finanziarie, manufatturiere e produttrici di servizi (ciascun paese dotato però di proprie peculiarità e specializzazioni economico-produttive locali appetibili in altre parti del Globo), ma anche per tutele sindacali e istituzioni politiche declinate in senso democratico e pluralistico, le uniche in grado di assicurare un benessere diffuso all’insegna della Libertà, dell’Uguaglianza, della Fratellanza e della Giustizia Sociale.
Del resto, un cittadino latore di diritti universali e inalienabili anche al lavoro e ad un giusto salario (così come ad un giusto profitto, se si tratta di un imprenditore, e ad una giusta remunerazione autonoma se si tratta di un artigiano o di un libero professionista) è l’architrave di una società aperta, democratica, liberale e prospera, dove tutti e ciascuno possano partecipare – in proporzione ai meriti e alle virtù individuali – della ricchezza prodotta e distribuita, e dove nessuno sia lasciato indietro senza mezzi di sussistenza sufficientemente dignitosa per sé e per la propria famiglia.
Uguaglianza concreta (non nominalistica e astratta) delle opportunità (di studio e di lavoro) nella diversità di meriti, talenti, creatività (adeguatamente remunerate); Libertà e Democrazia sostanziali (e non solo formali); Economia di mercato in dialettica feconda con uno Stato autorevole, forte, interventista (quando occorra) ma non invasivo e opprimente; Fratellanza e Solidarietà nel mettere al centro della società gli Esseri Umani e il Popolo Sovrano e non entità astratte, totemiche e cannibaliche come i cosiddetti “mercati presuntivamente e presuntuosamente in grado di auto-regolarsi” in virtù di sedicenti e mitologizzanti “mani invisibili”…
Insomma, Libero Mercato in Libera Democrazia, per parafrasare un celebre motto del Fratello Camillo Benso, conte di Cavour…
E Libera Democrazia significa il primato della politica sull’economia, senza che quest’ultima sia oggetto di pianificazione forzosa e dirigista.
Libero Mercato comporta licenza complessiva di intraprendere, speculare, ricercare il profitto privato, senza però la pretesa di inibire l’azione equilibrante e propulsiva della politica e delle istituzioni democratiche nell’interesse pubblico della collettività.

Ci associamo, infine, alle beneauguranti conclusioni dell’intelligente Francesco Salistrari:

”Concludo dicendo che saluto con molto piacere questa iniziativa, che ritengo non solo importante ma potenzialmente capace di dare risposta a quella domanda latente di partecipazione politica che sorge un po’ ovunque nelle pieghe della società italiana (e non solo italiana). La crisi dei partiti e del sistema politico, è anche una crisi culturale, non solo politica. E’ una crisi che mette in discussione la stessa modellistica della forma-partito e dei modi di partecipazione popolare che tale forma ha permesso si esplicasse nel corso della storia recente, soprattutto a partire dal dopoguerra fino agli anni settanta. E’ per questo motivo che sono convinto che la ricerca di nuove forme e di nuovi metodi di partecipazione democratica alla formazione di indirizzi politico-culturali innovativi, rivoluzionari e capaci di incidere profondamente nella realtà economica, sociale e politica del contesto nel quale viviamo, siano assolutamente necessari e ormai improcrastinabili.
Da oggi, l’Associazione “Eleanor Roosevelt”, comincia un percorso di crescita che si spera sia importante. Per non tradire questa speranza, viva e necessaria, c’è bisogno di tanto lavoro, di chiarezza di idee, di intenti e di finalità e soprattutto la capacità di conquistare, nel corpo sociale, quella fiducia necessaria affinché il contributo che essa può dare al dibattito politico generale possa essere determinante. 
Non solo, l’Associazione è chiamata ad un compito se vogliamo anche più difficile: saper risvegliare la speranza. La speranza in un mondo migliore, un mondo più giusto, più a misura d’uomo. Una speranza di cui, la società, oggi, ha assoluto bisogno per risvegliarsi da quel torpore nel quale le tecniche manipolative del potere l’hanno relegata per troppo tempo.”

 

E cosi sia, se l’opera congiunta delle mani e dell’intelletto umano (massimi doni delle divinità, per chi riponga fede in esse…) saprà conquistare “nuove strade, nuovi corsi, nuove creazioni originali utili al convitto globale…”.

Concludiamo peraltro questo nostro contributo con un piccolo cammeo di natura etica e spirituale, nell’intento di tributare omaggio alla religiosità laica e massonizzante (e nondimeno nutrita di importanti componenti cristiane) della grandissima Eleanor Roosevelt.
La seguente era una delle preghiere serali profondamente intense, originali ed eterodosse scaturite dall’animo della Sorella Eleanor:

“Padre nostro, che ci hai resi irrequieti nel profondo del cuore e sempre in cerca di cose che mai riusciremo a fare pienamente nostre, veglia a che nessuno di noi si accontenti di come spende la propria vita. Distoglici dalla facile soddisfazione e spingici a guardare lontano, verso mete più ardite. Assegnaci compiti troppo ardui per noi, affinché la forza che dovremo impiegare ci porti fino a Te. Liberaci dall’impazienza e dalla commiserazione per noi stessi. Rendici certi del bene che non riusciremo a vedere e di tutto ciò che di buono è celato nel mondo. Apri i nostri occhi alla bellezza delle cose semplici tutt’intorno a noi, e i nostri cuori alle attrattive che gli uomini ci nascondono perché noi stessi non facciamo nulla per comprenderli. Salvaci da noi stessi, e fa’ che ci appaia finalmente un mondo nuovo”

(Preghiera di Eleanor Roosevelt, tratta dal libro di Elliott Roosevelt e James Brough, Mother R., Eleanor Roosevelt’s untold story, Putnam, New York 1977)

 

I FRATELLI DI GRANDE ORIENTE DEMOCRATICO (www.grandeoriente-democratico.com)

[ Articolo del 23-25 luglio 2013 ]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per comunicazioni, scrivete a: info@grandeoriente-democratico.com